Ci preoccupiamo della benzina bruciata dalle automobili, delle centrali termoelettriche e del passaggio ancora troppo lento alle fonti rinnovabili che permettono di sostituire i combustibili fossili, fonte delle emissioni di gas di serra che surriscaldano il pianeta. Intanto, però, continua a crescere la produzione globale di plastiche, derivate del petrolio e del gas – cioè quegli stessi combustibili fossili. In altre parole, non dobbiamo pensare agli idrocarburi solo in termini di energia e trasporti: sono anche la materia prima delle infinite sostanze sintetiche che hanno invaso la nostra vita.
Qualche semplice dato dovrebbe far riflettere. La produzione globale di plastiche rappresenta circa il 12 per cento della domanda globale di petrolio e il 9 per cento della domanda di gas (è un dato del 2019), e questa quota è destinata ad aumentare. Anzi, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia ormai è proprio l’industria petrolchimica a trainare la domanda di petrolio; è “grazie” a questa industria che nel 2023 il consumo globale di petrolio ha superato il livello precedente alla pandemia di Covid-19.
L’industria chimica ha sempre avuto un forte legame con quella dei combustibili fossili. Soprattutto a partire dalla seconda metà del ‘900, quando molecole derivate da sottoprodotti del petrolio e del gas sono diventate la materia prima di fertilizzanti azotati, detersivi, solventi, vernici, materiali isolanti, fibre sintetiche – e ovviamente delle varie plastiche, che oggi rappresentano oltre due terzi della produzione petrolchimica mondiale.
Le plastiche sono onnipresenti nella nostra vita, anche se non sempre ce ne rendiamo conto. Sono nei telefoni e nei computer, negli elettrodomestici, nelle automobili – perfino nelle pale delle turbine eoliche. Le troviamo in oggetti sofisticati come molti prodotti biomedici e in infiniti oggetti più banali, dai giocattoli a molte fibre tessili, plexiglass, materiali da imballaggio – fino all’infinita quantità di sacchetti, bottiglie e contenitori monouso per cibo e bevande che poi si accumulano nelle pattumiere, discariche e mari di tutto il pianeta. In termini di quantità, oltre il 40 per cento delle plastiche consumate oggi sono imballaggi, seguono i prodotti per l’edilizia. Qualcuno sostiene che viviamo nel plasticene.
Basti pensare che nel 1950, quando la petrolchimica era all’esordio, la produzione globale annua di plastiche ammontava a 2 milioni di tonnellate; a fine secolo era salita a oltre 200 milioni di tonnellate, e nel 2019 era ancora raddoppiata, a oltre 400 milioni. Negli ultimi vent’anni è stata fabbricata più plastica che nel mezzo secolo precedente, e secondo le previsioni correnti la produzione raddoppierà entro il 2050 (ma secondo altre stime potrebbe triplicare).
Sono previsioni già largamente determinate dai fatti, dal conto degli impianti appena costruiti o che stanno per entrare in attività: stabilimenti sempre più grandi, ubicati intorno agli impianti dove gli idrocarburi vengono raffinati e lavorati. Gran parte della nuova capacità produttiva è in Cina e altri paesi dell’Asia orientale, in Arabia saudita e altri Paesi della penisola arabica, e in parte negli Stati Uniti. In gran parte sono investimenti di compagnie petrolifere, da sole o in società con grandi imprese della chimica. Un mercato in gran parte spostato verso l’Asia: l’Agenzia internazionale per l’energia osserva che la domanda cinese di prodotti petrolchimici sta trainando una crescita senza precedenti, e che gli impianti di raffinazione entrati in attività di recente lavorano più per produrre le macromolecole di base delle plastiche che carburanti. Secondo l’Aie, «tra il 2019 e il 2024 la Cina ha aggiunto altrettante capacità di produzione di etilene e propilene, i due principali componenti della petrolchimica, di quanta ne esiste oggi in Europa, Giappone e Corea sommati».
Questo significa che più declina la domanda di petrolio per gli usi “tradizionali”, come la produzione di carburante per i trasporti, più le imprese petrolifere vedono le plastiche come un investimento strategico: un piano B per continuare a prosperare. Le plastiche perpetuano la nostra dipendenza dai combustibili fossili.
E in termini di emissioni? Una ricerca del Lawrence Berkeley National Laboratory stima che nel 2019 la produzione globale di plastiche abbia prodotto 2,24 gigatonnellate (miliardi di tonnellate) di anidride carbonica-equivalente, pari al 5,3 per cento di tutte le emissioni di gas di serra globali. Stima anche che, al tasso di crescita attuale, questa quantità potrebbe triplicare entro il 2050, raggiungendo il 15 per cento delle emissioni globali.
Così torniamo al punto: le plastiche sono un ostacolo a qualsiasi sforzo per limitare le emissioni di gas di serra. E questo porta a una domanda: è possibile rendere meno pesante questa industria, esiste la “plastica sostenibile”?
Non facciamoci illusioni. Alcune (poche) grandi aziende della petrolchimica hanno presentato piani per tagliare le emissioni nei processi produttivi, sostituire i combustibili fossili, aumentare l’efficienza. Ma la gran parte degli idrocarburi usati per le plastiche servono come materia prima: se anche si riuscisse a decarbonizzare il sistema energetico, la produzione di plastiche continuerà a richiedere grandi quantità di petrolio e gas.
Bisogna anche ricordare che la petrolchimica è una delle industrie più nocive per chi ci lavora, come testimonia una lunga storia di disastri e malattie in tutto il mondo. E che, come prodotto finito, le plastiche diventano rapidamente rifiuti, fonte di inquinamento che minaccia la salute umana e gli ecosistemi.
Su questi aspetti qualche consapevolezza si diffonde. Da un paio d’anni le Nazioni unite discutono un Trattato internazionale sulla plastica per limitare l’inquinamento durante tutto il ciclo, dalla produzione allo smaltimento; il prossimo round di negoziati comincerà il 25 novembre a Busan, in Corea del sud. Passerà l’idea di mettere un tetto alla produzione globale di plastiche? Non è affatto scontato. Intanto le associazioni dell’industria petrolchimica in tutto il mondo continuano un agguerrito lavoro di lobby per evitare normative stringenti, nazionali e internazionali – si pensi alle feroci opposizioni suscitate dai tentativi di limitare le plastiche monouso.
E l’economia circolare? Oggi solo il 9 per cento delle plastiche consumate viene riciclato (percentuale che resta invariata per i paesi industrializzati e non); mentre il 19 per cento finisce negli inceneritori e il resto in discariche, controllate o abusive (sono stime dell’Organizzazione per la cooperazione economica, Ocse). Il fatto è che non tutte le plastiche sono riciclabili, e molti oggetti mescolano diversi materiali. Per aumentare la circolarità bisogna preferire certe plastiche, raccoglierle in modo separato per tipo, non mescolare materiali riciclabili e non. E questo rende le operazioni complicate e costose, oltre che dispendiose di energia: infatti oggi le plastiche (e le fibre sintetiche) nuove costano meno di quelle riciclate.
Così, sostenere che le plastiche siano riciclabili è un’altra illusione: e forse è stata alimentata di proposito. Una nota istituzione statunitense di ricerca ambientale sostiene che “per anni le compagnie petrolifere e chimiche hanno fatto credere che sia possibile riciclare le plastiche pur sapendo che non è tecnicamente né economicamente fattibile”, al fine di continuare a promuovere i loro prodotti. Il mese scorso il governo della California ha fatto causa alla ExxonMobil proprio con quest’accusa.
Bisogna allora puntare sulle cosiddette bioplastiche, prodotte non da idrocarburi ma da olii vegetali non fossili? Oggi sono appena l’uno per cento del totale delle plastiche prodotte. Ed è un bene, perché se volessimo sostituire con bioplastiche tutti gli imballaggi oggi di plastica monouso dovremmo usare più di metà della produzione mondiale di mais: quindi convertire una superficie più grande della Francia, o distruggere altri pezzi di foresta del Borneo per farne altre piantagioni di palma da olio.
Ammettiamolo, la plastica “sostenibile” non esiste. Possiamo riciclare un po’ di più, guadagnare qualche punto di efficienza energetica, ma non basta. Se vogliamo davvero andare “oltre il petrolio” non resta che aggredire il problema alla radice: produciamo e usiamo troppe plastiche. L’unica strada sarà produrne di meno: e un buon inizio sarà eliminare la massa di imballaggi, bottiglie, vaschette e altri oggetti monouso che hanno riempito le nostre vite.
Marina Forti è una giornalista e scrittrice. Dopo trent’anni a il manifesto, oggi collabora con Internazionale, Altreconomia e altre testate. Ha ricevuto il Premiolino (1999) per la rubrica Terraterra e il premio Elsa Morante per la comunicazione (2004) per La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel Sud del mondo (Feltrinelli, 2004). Il suo ultimo libro è Malaterra. Come hanno avvelenato l'Italia (Laterza, 2018). È la direttrice della Scuola di giornalismo Lelio Basso.
Memini climatici
La divulgazione della scienza ha molti volti e in questa seconda stagione di A Fuoco vogliamo presentarne uno inedito: i meme. Su cosa sia esattamente un meme si è detto e scritto tanto, ma il modo migliore per entrare nel vivo del concetto è probabilmente quello di mostrarvene uno.
Vogliamo chiudere così i nostri appuntamenti settimanali, con un contenuto che parli della scienza climatica, delle storture del nostro dibattito pubblico, dei tic del negazionismo sul tema. Per farlo ci servirà anche il vostro aiuto: inviate le vostre produzioni all’indirizzo afuoco@substack.com, saremo felici di pubblicare le migliori. Vi aspettiamo!
Se riducessimo la quantità sovrumana di imballaggi di cui siamo sommersi, forse le bioplastiche potrebbero aiutare a superare la dipendenza da combustibili fossili in quei settori in cui ancora non possiamo fare a meno delle plastiche (dalla tecnologia agli usi medici), perché a quel punto useremmo meno plastica in assoluto. Di recente un'influenza mi ha costretto a farmi portare la spesa dal supermercato: alla fine mi è sembrato di avere più plastica che frutta e verdura quasi. Il rischio è che le bioplastiche vengano usate per fare del gran greenwashing.
E non dimentichiamoci l'ultra fast fashion, che fa un uso smodato di fibre sintetiche e applicazioni di plastica... Altro abuso di combustibili fossili.
Oltretutto come giustamente dite il riciclo spesso è impossibile o non conveniente dal punto di vista della sostenibilità: 12 anni fa, nella cornice di un progetto europeo, la mia tesi di laurea specialistica verteva su questo (si trattava di un LCA su diversi schemi di gestione dei rifiuti di plastica). E mi pare che 12 anni dopo, siamo ancora lì - frustrante.
Grazie per questo articolo.
Ps il memino è bellissimo
Tutto molto chiaro e purtroppo vero