Malgrado nella memoria di molte e molti di noi dell’estate appena trascorsa rimarrà probabilmente quasi solo il ricordo di temporali, acquazzoni, bombe d’acqua e alluvioni, questa è stata l’estate più calda di sempre. Secondo i dati del progetto europeo Copernicus, infatti, la stagione estiva boreale, ovvero quella che va da fine giugno a fine settembre, ha registrato temperature superiori di quasi 1 °C rispetto all’estate 2023, di 0,2 °C superiori rispetto all’estate record del 2022 e di addirittura 1,54 °C rispetto alla media climatica del trentennio 1991-2020.
Ormai non è una novità. Questa anomalia termica non è più una anomalia. E se ci costringe ad aggiornare la classifica delle estati più calde di sempre ogni anno, forse è meglio cominciare a usare altre espressioni, e magari dire che questa è stata l’estate più fresca dei prossimi 100 anni. Questo significa che il fenomeno del riscaldamento globale non è più — se mai lo è stato — qualcosa che riguarda solo Paesi lontani, esotici e meno sviluppati. È un fenomeno che riguarda tutte e tutti noi, anche in questa nostra porzione di mondo — l’Europa meridionale e mediterranea in particolare — e colpisce in modo molto severo soprattutto i centri urbani, molto meno attrezzati ad assorbire le ondate di calore e a fornire riparo alle persone che ci vivono.
Da un paio d’anni a questa parte si è cominciato a sentir parlare sempre più spesso, e non solo tra climatologi e scienziati, delle Isole di Calore Urbano. In inglese si chiamano con una sigla, UHI, che sta per Urban Heat Island, e sono un fenomeno strettamente collegato alla cementificazione e all’antropizzazione dei centri abitati, che porta ad avere temperature più calde anche di 5 °C nelle città rispetto alle campagne circostanti e alle cinture periferiche suburbane.
È un fenomeno che si sta aggravando e i cui costi economici e sociali si stanno inasprendo. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet Planetary Health nel marzo del 2023, l’impatto degli eccessi di temperatura nelle città sull’aspettativa di vita della popolazione che ci vive è sempre più alto e importante e, per le fasce più deboli della popolazione (anziani, bambini e persone affette da malattie cardiorespiratorie), può essere mortale. Nell’estate del 2023, solo in Europa, il caldo ha ucciso quasi 50mila persone.
Di fronte a tutto ciò parlare di resistenza non ha senso. Non si può “resistere” all’inasprimento di queste ondate di calore. Così come non si può resistere all’aumento della frequenza e della potenza degli eventi climatici estremi come gli uragani o le alluvioni, né alla maggior parte degli effetti del riscaldamento globale. L’unica soluzione è adattarsi. È modificare le nostre città e le nostre abitudini per soffrire di meno gli effetti di un fenomeno che, lo sappiamo già, è destinato a peggiorare sempre di più.
Sembra una condanna a morte, ma in realtà ci sono anche notizie positive. La prima e più importante è che le soluzioni non sono impossibili da immaginare, tutt’altro. Sono relativamente poco costose e in larga parte sono già in atto in molte città sia nel Nord che del Sud del mondo. Sappiamo cosa fare, qualcuno lo sta già facendo e i risultati sono molto incoraggianti.
Tra la fine del 2018 e la fine del 2021, a cavallo della pandemia e del lockdown, la Città Metropolitana di Milano ha realizzato un dossier che si chiama Life Metro Adapt e che consta di una serie di report che analizzano la situazione, elencano le soluzioni e forniscono esempi pratici e casi di studio relativi alle misure adottate da altre città in giro per il mondo. Si tratta di un lavoro immenso, cofinanziato dall’Unione Europea, che ci ha investito oltre 600mila euro. Tra i documenti pubblicati c’è un pdf, che si può scaricare o consultare liberamente online, che è un vero e proprio manuale di oltre 80 pagine interamente dedicato alle decine di strategie implementabili per mitigare gli effetti delle UHI. Quasi tutte sono basate sulla reimmissione nell’ambiente urbano di elementi naturali.
Si parla di nature-based solutions, ce ne sono un sacco e vanno da microsoluzioni economiche, di rapida e facile realizzazione, fino a soluzioni infrastrutturali più ampie, più costose e i cui effetti si registrano più a lungo termine. «Nelle aree densamente urbanizzate», si legge nel documento, «lo sviluppo della vegetazione su edifici e manufatti di arredo urbano sta diventando una componente sempre più importante nelle misure di adattamento agli effetti dei cambiamenti climatici, in particolare per quanto riguarda il contrasto alla formazione delle isole di calore». Il principale metodo di adattamento delle nostre città alle nuove condizione sempre più torride è proprio riportare in città gli elementi naturali: alberi, arbusti, prati, persino terreni incolti.
Dai cosiddetti green roof, i tetti verdi, ovvero «coperture caratterizzate da un impianto vegetale su uno strato di supporto strutturale impermeabile con diverse funzioni di mitigazione dell’impatto ambientale, in particolare il drenaggio delle acque meteoriche»; passando per le pareti verdi, ovvero «chiusure verticali vegetate che contribuiscono al raffrescamento del microclima interno ed esterno all’edificio, e sono ottenute con specie vegetali piantumate al suolo»; fino ai cosiddetti corridoi verdi, strade alberate o parchi messi in comunicazione tra loro in una rete che possa offrire insieme mitigazione delle temperature e riparo diretto dal sole.
Si tratta, per quanto riguarda queste ultime, di soluzioni tutto sommato semplici, veloci e poco costose, ma non sono certo le uniche. Progetti più estesi e a lungo termine, già sperimentati con successo in città che hanno aperto la strada a questo genere di interventi, sono i quelli relativi agli orti urbani, ai micro parchi o addirittura ai progetti di agroforestazione urbana, in grado di mitigare gli effetti delle isole di calore in maniera drastica, ma che necessitano prima di tutto di volontà politica.
Ecco il tasto dolente, quantomeno in Italia, di sicuro a Milano: la mancanza di volontà politica. Nonostante l’amministrazione abbia a disposizione report come questo e abbia persino lanciato iniziative sulla carta importanti come il progetto ForestaMI — un piano decennale per piantare 3 milioni di alberi nel territorio della Città Metropolitana di Milano — la sensazione è che prima dei bisogni e del benessere della cittadinanza ci sia sempre l’esigenza di sfruttamento economico del mercato immobiliare.
Andrea Coccia è un giornalista freelance. È tra i fondatori di Slow News, il primo progetto di slow journalism italiano, e dal 2022 è direttore responsabile del trimestrale di giornalismo a fumetti La Revue.