Cosa può fare e (soprattutto) cosa non può fare l’intelligenza artificiale nella lotta al cambiamento climatico
di Giordano Zambelli
È il mese di novembre del 2022 quando ChatGPT, chatbot di intelligenza artificiale (IA) sviluppato da OpenAI, diventa quasi improvvisamente un fenomeno globale. Il successo di ChatGPT, noto nelle sue precedenti versioni perlopiù agli addetti ai lavori, sorprende persino i suoi sviluppatori e coincide con il punto in cui la percezione generale dell’IA sembra sfondare un muro. Un’applicazione di una tecnologia complessa e fino a quel momento percepita come inaccessibile ai più finisce tra le mani di milioni di persone, che cominciano a usarla e a parlarne pressoché ogni giorno.
Quando un’innovazione tecnologica raggiunge un tale livello di ubiquità, chiunque comincia a sentirsi indirettamente obbligato a prendere una posizione a riguardo. Si passa dalla consueta altalena mediatica di panico morale e hype futuristico ai più strategici posizionamenti di chi sente che qualcosa che non si può ignorare sta accadendo. Nei mesi seguenti al lancio di ChatGPT, pressoché ogni attore dell’economia globale ha cominciato a chiedersi che cosa l’intelligenza artificiale potesse significare per il futuro del proprio settore.
È in questo contesto che il tema dell’intelligenza artificiale comincia a intrecciarsi sempre più strettamente alla questione della lotta al cambiamento climatico. Nel giro di qualche mese dal lancio di ChatGPT, la narrazione di un possibile ruolo chiave dell’IA come alleata nella lotta al cambiamento climatico comincia a farsi strada. Nel dicembre del 2023, Kate Brandt, Chief Sustainability Officer a Google, spiega in un'intervista al Wall Street Journal che l’intelligenza artificiale può «supercharge climate solutions», traducibile con «ultrapotenziare le soluzioni climatiche». L’IA, secondo questa logica, sarebbe già uno strumento unico nel fornire a istituzioni e aziende maggiore disponibilità di strumenti analitici per limitare le proprie emissioni. Potrebbe inoltre contribuire a ottimizzare una serie di tecnologie già in uso e migliorare ulteriormente gli strumenti predittivi disponibili, usati per esempio nella previsione degli eventi meteorologici estremi.
Google non è l’unica azienda a ricamare questa narrazione. Bill Gates, fondatore di Microsoft, nonché uno dei maggiori investitori in OpenAI, si è mostrato a più riprese convinto del potenziale che l'intelligenza potrebbe esprimere nella riduzione complessiva delle emissioni globali. Anche il WEF (World Economic Forum), l’organizzazione che rappresenta le più importanti multinazionali al mondo, è sembrato allinearsi. In un report condiviso dal WEF sul proprio sito nel febbraio 2024 vengono elencate 9 applicazioni basate su IA già utilizzate per contrastare il cambiamento climatico come pulizia degli oceani, mappatura della deforestazione e monitoraggio dello scioglimento degli iceberg.
Non c’è dubbio che l’IA possa rendere più efficiente alcune delle attività che svolgiamo. E questo vale ovviamente anche per alcuni dei nostri tentativi di contrastare gli effetti peggiori del cambiamento climatico. Tuttavia, la narrazione dell’IA come alleata climatica va perlomeno trattata con cautela. L’IA è indicata da ogni singola azienda tecnologica come obiettivo fondamentale per la propria futura competitività. Microsoft, Alphabet, Meta e Amazon hanno ulteriormente aumentato i propri investimenti nell’IA nel primo semestre del 2024 e la tendenza pare debba rimanere invariata almeno nel breve/medio termine, nonostante diversi analisti stiano cominciando a dubitare dei concreti ritorni sugli investimenti, paventando addirittura lo scenario di una possibile bolla. Tuttavia, mentre gli investimenti lievitano e il bisogno di capire come monetizzare si fa più urgente, le stesse aziende sanno perfettamente che l’espansione dello sviluppo dell’IA va quantificata non solo in spesa corrente, ma anche in termini di spesa energetica. È ampiamente assodato, infatti, che le applicazioni che si basano su IA sono altamente energivore, a tal punto che alcune aziende tecnologiche hanno già ammesso che i propri obiettivi di riduzione di emissioni fossili stanno al momento vacillando. Come conseguenza, il ciclo di vita di alcune fonti fossili come il carbone verrà presumibilmente prolungato per far fronte alla domanda di energia.
Nessuno sembra potersi tirare fuori dalla corsa e nessuno sa quando, come e in che misura potrà capitalizzare a proprio vantaggio gli investimenti, ma ciascuno è consapevole dei costi ambientali. Le più importanti aziende che sviluppano applicazioni IA sanno bene che la corretta gestione del tema dell’impatto climatico è un fronte importante per la propria espansione, e infatti Sam Altman, CEO di OpenAI, a Davos, lo scorso febbraio 2024, ha indicato la via: fissione nucleare, che tuttavia risulta impraticabile almeno nel breve/medio termine, mentre il tempo per ridurre drasticamente le nostre emissioni non è esattamente abbondante.
In questa situazione fluida la narrazione dell’IA come volano per la lotta al cambiamento climatico finisce inevitabilmente per apparire come posizionamento strategico. A fronte di una manciata di applicazioni concretamente utili alla lotta al cambiamento climatico, c’è in ballo un enorme volume di investimenti in IA che al momento nessuno sa bene come rendere climaticamente neutrale. La trama dell’IA che, come una sorta di jolly, esce inaspettatamente nella nostra corsa contro il tempo per evitare il peggio della crisi climatica, ci obbliga a interrogarci non tanto su quanto viene detto, ma piuttosto su quanto viene tralasciato.
Innanzitutto, anche ammettendo lo scenario in cui una serie di concrete soluzioni IA al cambiamento climatico producano risultati oltre misura incoraggianti, siamo davvero pronti a credere che il suo utilizzo rimanga confinato nel recinto della lotta alle emissioni globali? Abbiamo delle evidenze su come l’adozione trasversale di tale tecnologia potrebbe influenzare la traiettoria del bilancio globale delle emissioni di gas climalteranti? Stiamo tenendo conto degli interessi divergenti e conflittuali che nascono attorno a qualsiasi tecnologia emergente e delle relazioni di potere che ne determinano lo sviluppo? Cosa succede se l’industria petrolifera trova il modo di usare l’IA a proprio vantaggio? Dopo almeno un decennio in cui discutiamo di come sia stato illusorio il mantra tecno-determinista di chi promuoveva internet come intrinsecamente liberatorio e democratico, sembra superfluo ma forse è necessario ribadirlo: la traiettoria di una tecnologia non è predeterminata. Questo significa che il peso dell’intelligenza artificiale nella lotta al cambiamento climatico sarà necessariamente dettato dalla complessa dialettica politica e diplomatica in cui questa lotta è inserita. Possiamo disporre di tutte le più brillanti applicazioni per monitorare la deforestazione in Amazzonia, ma difficilmente l’intelligenza artificiale cambierà le carte in tavola, se rimangono inalterati gli equilibri che continuano a rendere attraente l'agribusiness che distrugge la foresta amazzonica. Conta non tanto quello che una tecnologia sa fare, ma cosa ce ne vogliamo fare noi, di quella tecnologia.
Ma soprattutto, siamo consapevoli che stiamo parlando di uno strumento il cui stesso sviluppo tecnico è connaturato a uno specifico contesto socio-economico, a una specifica cerchia di persone in carne ed ossa, che vivono e lavorano in determinate aziende, che a loro volta sono imbevute di una certa visione sul ruolo della tecnologia all’interno della società? Dopo almeno un decennio in cui discutiamo apertamente di bias algoritmico sembra superfluo, ma forse anche in questo caso è necessario ribadirlo: la tecnologia non è né buona, né cattiva, ma nemmeno neutrale, come scriveva Kranzberg. Ogni innovazione tecnologica è indistinguibile dalla rete di attori che ne determinano lo sviluppo e la diffusione, incorporandone quindi i tratti ideologici prevalenti. La convinzione che, limitando gli sviluppi negativi dell’IA, potremmo avvalercene come utile strumento di sostenibilità climatica rivela la vicinanza ad un’ideologia tecno-soluzionista secondo cui ogni problema generato da un certo paradigma economico puó essere risolto da una soluzione tecnologica.
In una fase in cui la lotta al cambiamento climatico ha perso la propulsione delle proteste di fine anni Dieci, il rischio è che a prevalere sia una versione depotenziata e strumentale di questa lotta. Una versione in cui s’impone un’idea soluzionista e palliativa alla salvaguardia degli ecosistemi terrestri, con una qualche tecnologia dietro l’angolo pronta a permetterci di continuare a fare tutto come si è sempre fatto.
Giordano Zambelli è un ricercatore presso l’Università di Bruxelles (VUB), dove si occupa di innovazione e politiche pubbliche nel settore dei media. Appassionato di meteorologia e clima, dal 2023 collabora con duegradi.eu e cura una rubrica sulle mistificazioni e le fallacie logiche utilizzate da chi ha interesse a inquinare il dibattito sul cambiamento climatico.
Memini climatici
La divulgazione della scienza ha molti volti e in questa seconda stagione di A Fuoco vogliamo presentarne uno inedito: i meme. Su cosa sia esattamente un meme si è detto e scritto tanto, ma il modo migliore per entrare nel vivo del concetto è probabilmente quello di mostrarvene uno.
Da oggi e per le settimane a venire vogliamo chiudere così i nostri appuntamenti settimanali, con un contenuto che parli della scienza climatica, delle storture del nostro dibattito pubblico, dei tic del negazionismo sul tema. Per farlo ci servirà anche il vostro aiuto: inviate le vostre produzioni all’indirizzo afuoco@substack.com, saremo felici di pubblicare le migliori. Vi aspettiamo!