È molto probabile che non ne abbiate mai sentito parlare. Ma in un modo o in un altro, ci siete entrati in contatto. Quando comprate un pacco di biscotti, di merendine o patatine. Quando condite la vostra insalata o il vostro caffè. Quando andate a fare la spesa. Insomma, sempre. Cargill lo scriveva già in un volantino del 2001:
“Siamo la farina del vostro pane, il grano delle vostre tagliatelle, il sale delle vostre patatine. Siamo il mais nelle vostre tortillas, il cioccolato nei vostri dolci, il dolcificante nelle vostre bibite. Siamo l'olio nel vostro condimento per l'insalata, il manzo, il maiale o il pollo che mangiate per cena. Siamo il cotone dei vostri vestiti, il supporto dei vostri tappeti e il fertilizzante dei vostri campi".
E in effetti loro sono proprio tutto per noi. Ma noi quanto sappiamo di loro?
Poco, anzi pochissimo.
Alcuni del settore le chiamano “le multi”. Altri le chiamano “ABCD”. Per i non addetti ai lavori, dietro la sigla “ABCD” ci sono le multinazionali dell’agroindustria più importanti al mondo: le statunitensi Archer Daniels Midland, Bunge, Cargill e la franco-svizzera con base in Olanda Louis Dreyfus Company. Negli ultimi anni, alla lista dei più grandi commercianti di materie prime si sono aggiunte la cinese Cofco, diventata la seconda al mondo dopo Cargill, la Wilmar di Singapore e anche Viterra, controllata dalla multinazionale Glencore, che nel giugno 2023 ha annunciato una mega fusione con Bunge per far nascere un altro gigante del commercio agricolo globale, dal valore di circa 34 miliardi di dollari.
Semplificando, il compito di queste aziende è comprare, stoccare, trasportare, costruire infrastrutture portuali, trasformare e vendere commodities alimentari da una parte all’altra del mondo. Le commodities, nel nostro caso, sono materie prime alimentari che si scambiano sul mercato, immagazzinabili e conservabili nel tempo.
Prodotti standardizzati, anonimi, senza identità, né legami con il territorio dove sono coltivati. Merci: si comprano in grandi quantità, in anticipo anche di tre, sei, dodici mesi, si stoccano in magazzini, granai, o silos e poi viaggiano su navi di medie e grandi dimensioni arrivando ovunque nel mondo.
Tra queste materie prime ci sono i prodotti più consumati al mondo: grano, mais, soia, zucchero, cioccolato, caffè, carne.
Ma a controllare la produzione, commercializzazione e la distribuzione di queste commodities sono sempre di più una manciata di grandi aziende che plasmano i mercati e la ricerca in modo da perseguire la massimizzazione del profitto degli azionisti, e non del bene pubblico.
Basti pensare che Bayer-Monsanto, DowDupont-Corteva, ChemChina-Syngenta e BASF, dominano il 60 per cento del mercato mondiale delle sementi e il 75 per cento del mercato globale dei pesticidi. E il gruppo “ABCD” controlla tra il 70 e il 90 per cento del commercio globale dei cereali. «I mercati globali dei cereali sono ancora più concentrati di quelli dell'energia e ancora meno trasparenti, quindi c'è un enorme rischio di speculazione», ha spiegato al Guardian Olivier De Schutter, co-presidente dell’IPES-Food, (gruppo internazionale di esperti sui sistemi alimentari sostenibili) e relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani. Nonostante la pandemia di Covid-19 e la guerra in Ucraina, a metà del 2022, la multinazionale del grano Archer-Daniels-Midland (ADM) ha registrato i suoi profitti trimestrali più alti di sempre. Anche la rivale Cargill, ha registrato profitti record, con un'impennata dei ricavi totali del 23 per cento nel 2022. Secondo Silvie Lang, responsabile del dipartimento soft commodities di Public Eye, organizzazione non governativa indipendente con sede in Svizzera che monitora le violazioni dei diritti umani e dell’ecosistema delle principali multinazionali, “è stato calcolato che dal 2020, dall’inizio della pandemia, la famiglia che controlla Cargill, composta da 8 ultramiliardari, si è arricchita di 20 milioni di dollari al giorno. Mentre le persone non possono permettersi il cibo, questa è l’azienda che sostiene di nutrire il mondo”.
Se è vero che nell’ultimo secolo, il sistema alimentare è riuscito a produrre abbastanza cibo per una popolazione in crescita esponenziale, riducendo il prezzo reale degli alimenti per renderli più accessibili ai poveri e ridurre la fame, è altresì vero che questo sistema agro-industriale ha imposto enormi costi ambientali e sanitari che vanno dalle emissioni di gas serra al degrado del suolo, dall’inquinamento dell’acqua e dell’aria al sovrasfruttamento delle falde acquifere, dalla perdita di biodiversità fino alla crescente resistenza antimicrobica, alla persistenza di persone sottonutrite o malnutrite e all'aumento dell'obesità.
Secondo il rapporto pubblicato nel 2022 dall’ETC group, un gruppo di ricerca indipendente che si occupa di agricoltura e controllo democratico delle tecnologie, «questi signori del cibo sfruttano i lavoratori, avvelenano il suolo e l'acqua, diminuiscono la biodiversità e perpetuano un sistema alimentare strutturato sull'ingiustizia economica e razziale». Basta inoltre leggere alcuni rapporti e inchieste sulla deforestazione, accaparramento delle terre, inquinamento, uso massiccio di prodotti di sintesi chimica, per rendersi conto degli impatti di questi giganti dell’agroindustria come Cargill, considerata da Mighty Earth, organizzazione di advocacy che si occupa di protezione della natura, la peggiore azienda del mondo.
Scrive Martien van Nieuwkoop, Direttore Globale del settore Agriculture and Food Global Practice della Banca Mondiale: «i costi ambientali e sanitari non si riflettono negli attuali prezzi di mercato dei prodotti alimentari associati. Secondo le nostre stime, gli impatti negativi associati al funzionamento dell'attuale sistema alimentare ammontano ad almeno 6.000 miliardi di dollari», e aggiunge, «si tratta di una stima prudente, che tiene conto solo di cinque "esternalità" dell'attuale sistema alimentare: la malnutrizione, la perdita e lo spreco di cibo, la sicurezza alimentare, il degrado del territorio e le emissioni di gas serra derivanti dalle attuali pratiche agricole. È probabile che vi siano costi sostanziali associati ad altre "esternalità" che non sono ancora state prese in considerazione».
Ad esempio i costi sanitari legati alla mortalità, all’aumento di malattie non trasmissibili, come patologie cardiovascolari e il diabete, o diete malsane per l’alto consumo di sale o basso consumo di frutta che causano decessi prematuri fino a undici milioni, riporta lo studio “Health effects of dietary risks in 195 countries”, durato 27 anni e pubblicato sulla rivista The Lancet nel 2019. A questi si aggiungono i costi sociali della crisi climatica: migrazioni forzate, eventi atmosferici estremi e povertà. Il rapporto annuale della FAO “Rivelare il vero costo del cibo per trasformare i sistemi agroalimentari”, ha calcolato che i danni alla salute e all’ambiente causati dall’industria alimentare costano al mondo 10 miliardi di dollari all'anno, pari al 10 per cento del PIL globale.
In conclusione, l’attuale sistema agro-industriale basato su monoculture, sull’uso di prodotti di sintesi chimica, sulla standardizzazione dei prodotti alimentari e sulle lunghe distanze, ha enormi impatti sociali e ambientali che raramente vengono calcolati nel prezzo di vendita del cibo ma sono scaricati come esternalità negative interamente sulle comunità e sull’ambiente. Sono dunque costi d’impresa pagati da altri.
In qualche modo noi tutti paghiamo questo costo. Basti pensare all’aumento delle malattie – diabete, colesterolo – legate all'alimentazione e al conseguente aumento delle tasse. O all’aumento dei prezzi del cibo, causato da eventi atmosferici estremi. Ovviamente l’impatto cambia a seconda della classe sociale di appartenenza e se si è cittadini del Nord globale o del Sud globale. Il rapporto della FAO afferma, infatti, che gli attuali sistemi alimentari aumentano la povertà nei Paesi a basso reddito. Molti agricoltori dei Paesi più poveri non beneficiano del valore dei loro prodotti, poiché spesso vendono a basso prezzo i loro raccolti a commercianti e produttori, che ne traggono il profitto. In questo modo i contadini non sono in grado di permettersi diete nutrienti. A pagare, quindi, sono soprattutto le popolazioni che meno hanno contribuito a crearla.
E quindi, come si riforma un sistema alimentare industriale in mano a pochi grandi oligopoli? Le proposte sono molto concrete. Tra queste: garantire il diritto a un’alimentazione sana adottando misure sociali come il reddito di base universale; imporre l’obbligo ai governi di procurarsi alimenti dai produttori locali; introdurre un’IVA più bassa sui prodotti che soddisfano determinati criteri come la sostenibilità sociale e ambientale; tassare gli extra profitti delle multinazionali; pretendere maggiore trasparenza sulle materie prime, ad esempio sullo stoccaggio dei cereali; introdurre una regolamentazione più severa nel mercato dei futures; bloccare le contrattazioni quando vi è una speculazione e un drastico aumento dei prezzi; tassare i dividendi degli azionisti con aliquote più alte ma soprattutto, come scrive La Via Campesina, organizzazione internazionale che coordina contadini, piccoli e medi produttori, comunità indigene e donne rurali in Asia, Africa, America e Europa, «Bisogna tornare a trattare il cibo come un bene comune e un diritto umano e non come una semplice merce, ricostruendo un sistema internazionale basato sulla cooperazione e i diritti umani».
Sara Manisera è una giornalista, autrice e documentarista indipendente. Ha lavorato a lungo in Iraq, Siria, Libano, nord Africa e Italia, occupandosi di conflitti ambientali, questioni di genere e filiere alimentari. È co-fondatrice di Fada Collective e Berta Fellow 2023.
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Le mani in pasta
Questa volta non ti proponiamo uno strumento o un link a documenti ma una lettura da fare con calma per approfondire. Sara Manisera, infatti, sta lavorando a un progetto ambizioso, sempre legato al mondo del cibo e della sua produzione, che si intitola Le mani in pasta. Dai semi della Mesopotamia all’agricoltura industriale, Le mani in pasta è un viaggio nel mondo del grano per capire chi ne controlla la filiera. Su Slow News e grazie al sostegno di Bertha Foundation sono già stati pubblicati quattro dei cinque episodi di questo lungo lavoro fatto di ricerca, scrittura, dati e visualizzazioni, foto e video. Li trovi qui: 1. I semi - 2. Le importazioni - 3. I mulini - 4. La pasta.
Molto interessante questo articolo, dovrebbe farci riflettere, mi riferisco ai comuni mortali che ancora possiedono un cervello funzionante, perché sono loro che mandano al potere governanti di cavolo che poi faranno politiche di dileggio su tutto e tutti.
GRAZIE