Il Mediterraneo sta diventando un mare tropicale (e questa non è una buona notizia)
di Stefano Liberti
L’estate sta finendo. Chi è andato in spiaggia, ha certamente notato che qualcosa è cambiato. Entrando in mare a qualsiasi ora, non si provava quella sensazione di refrigerio a cui siamo stati abituati fin da bambini: l’acqua era insolitamente calda, a volte più calda dell’aria esterna. Inoltre, sulla riva e sui bassi fondali abbiamo visto scorrazzare un animale nuovo, un granchio dalle grosse chele blu e dall’aggressività compulsiva.
Non si tratta di fenomeni passeggeri. Sono gli effetti più evidenti della crisi climatica che si sta dispiegando in modo particolarmente virulento sul Mediterraneo. Finora gli oceani e i mari, che coprono il 71 per cento della superficie terrestre, hanno mitigato il riscaldamento globale: grazie alla loro capacità di assorbire grandi quantità di calore e di CO2, hanno impedito all’aria di scaldarsi eccessivamente. In un certo senso, dobbiamo essere grati ai mari se la temperatura atmosferica non è diventata insopportabile. Ma oggi queste distese d’acqua stanno presentando il conto. E lo sta facendo in particolare il Mediterraneo, soggetto a un riscaldamento considerevole, che sta causando un mutamento epocale del suo ecosistema.
«Il Mediterraneo ha caratteristiche del tutto peculiari: è di fatto un grande lago, compreso tra il deserto del Sahara e il massiccio alpino», sottolinea Gianmaria Sannino, direttore del laboratorio di modellistica climatica dell’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. «Per questo è un hotspot, un luogo dove gli effetti del surriscaldamento globale si vedono in modo più significativo che altrove». Avvalendosi di stazioni di rilevazione sparse per tutto il bacino, Sannino e i suoi colleghi hanno misurato tra il 2022 e il 2023 la più lunga ondata di calore che ha colpito il Mediterraneo negli ultimi 40 anni, con un aumento fino a 4°C della temperatura media. Dati completi per il 2024 ancora non sono stati resi noti, ma varie misurazioni locali – oltre all’esperienza sensoriale di noi bagnanti – mostrano che la tendenza è quella: il Mediterraneo sta diventando sempre più un mare tropicale.
Cosa implica questo mutamento? Quali sono gli effetti a breve e medio termine di questa tropicalizzazione del mare? L’acqua più calda sta producendo uno stravolgimento dell'ecosistema. È in atto una vera e propria sostituzione di specie: diversi organismi alieni si stanno diffondendo nel bacino, rimpiazzando specie autoctone e proliferando grazie alle temperature più elevate. È il caso del granchio blu, o Callinectes sapidus, che ha già distrutto le coltivazioni di vongole nel Delta del Po e che è ormai presente in modo stabile lungo gran parte del nostro litorale.
È anche il caso di un suo “cugino”, il Portunus segnis, un granchio molto simile che ha invaso le acque della Tunisia, devastando gli stock ittici e gettando sul lastrico i pescatori. I due crostacei sono in un certo senso lo specchio della crisi climatica in mare, per le caratteristiche che hanno e per le modalità con cui sono arrivati e si sono diffusi. Il primo viene dall’Oceano Atlantico ed è sbarcato nel Mediterraneo grazie alle cosiddette “acque di zavorra”. I mercantili che solcano gli oceani si stabilizzano incamerando nel porto di partenza tonnellate di acqua, che poi scaricano una volta giunti a destinazione. Prelevando acqua in una regione e rilasciandola in un’altra, possono accidentalmente trasportare organismi marini, come alghe, plancton, larve di invertebrati o uova di pesci, che si trovano così inseriti in un nuovo ambiente in cui a volte finiscono per prosperare, perché non hanno predatori naturali. Considerando che oggi l’80 per cento dei trasporti avviene via mare e che nel Mediterraneo arriva il 27 per cento del commercio mondiale di container, si capisce come questa prospettiva non sia un’eventualità, ma una certezza.
Il Portunus segnis è arrivato invece in Tunisia dall’Oceano Indiano attraverso il canale di Suez e ha trovato nelle acque più calde del Mediterraneo un habitat congeniale. Il suo impatto è stato talmente distruttivo che i pescatori tunisini lo hanno soprannominato Daesh, dall’acronimo arabo per lo Stato Islamico. Perché in effetti ha caratteristiche simili: come i combattenti jihadisti, fa tabula rasa ovunque passi.
La proliferazione di queste due specie è l’effetto di due fenomeni complementari: l’aumento degli scambi mondiali e l’incremento delle temperature del mare. Il canale di Suez è stato ultimato nel 1869, ma molto più recentemente è stato allargato per permettere il passaggio di un numero maggiore di navi. Solo che oltre alle imbarcazioni si è agevolato il passaggio di tanti organismi alieni. È quanto è accaduto con il granchio-Daesh tunisino. Ma anche con centinaia di altre specie. Nel Mediterraneo orientale gli organismi alloctoni sono oggi più numerosi di quelli autoctoni. I pescatori di Cipro o del Libano catturano ogni anno migliaia di pesci scorpione, pesci flauto, pesci coniglio e pesci palla maculati.
«Le specie aliene rappresentano una delle maggiori minacce per la biodiversità e l’equilibrio degli ecosistemi, poiché possono competere con le specie indigene e sovrastarle, essendo a volte predatori incontrastabili», sottolinea il biologo Ernesto Azzurro, esperto di questo tema al CNR-IRBIM di Ancona, Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine. Inseriti in un ambiente che non è il loro, questi organismi lo stanno in effetti modificando profondamente.
Il pesce coniglio, o Siganus luridus, è un erbivoro voracissimo che sta desertificando i fondali. Il pesce palla maculato è tossico, potenzialmente letale se viene ingerito dall’essere umano. Non avendo valore commerciale, nessuno ha interesse a pescarlo. Ma meno lo si pesca, più si diffonde, poiché in mare non esiste un predatore che lo attacca. Per ovviare al problema, il governo cipriota ha messo in piedi un programma di sradicamento: nei mesi di maggiore diffusione, dalla primavera all’autunno, lo compra dai pescatori a tre euro al chilo e lo fa bruciare in discarica.
Se la proliferazione delle specie aliene è il termometro più evidente di quanto il Mediterraneo si sta tropicalizzando, le conseguenze del surriscaldamento delle acque appaiono in prospettiva ancora più rilevanti. «Un mare più caldo implica che c’è una maggiore quantità di energia che si diffonde in atmosfera» analizza ancora Sannino. È questa la ragione per cui nell’area mediterranea si verificano con sempre maggiore frequenza eventi estremi.
I medicane, crasi un po’ infelice tra mediterranean e hurricane, sono un tipo particolare di uragani mediterranei che originano in mare e possono causare danni sulla terraferma. La duplice alluvione che nel maggio 2023 ha colpito l’Emilia-Romagna, provocando 17 vittime e 10 miliardi di euro di danni, ha avuto origine proprio da cicloni di questo tipo.
Al di là delle conseguenze catastrofiche sul territorio, questo evento ha avuto un effetto collaterale meno drammatico ma assai sintomatico: secondo i biologi marini, potrebbero essere state proprio le alluvioni a causare la proliferazione dei granchi blu sulle coste della regione, in particolare nelle aree lagunari del Delta del Po e delle valli di Comacchio. Trasportando enormi quantità di acqua dolce nelle zone costiere, avrebbero infatti favorito la schiusa di molte più uova rispetto al normale e provocato un’autentica esplosione biologica. Una circostanza che mostra come tutto si tiene: quello che accade in mare torna in mare e si riverbera poi sulla terra, generando reazioni a catena che spesso non siamo in grado di prevedere. È anche per questo che la crisi che sta attraversando il Mediterraneo meriterebbe la massima attenzione.
Stefano Liberti è un giornalista e documentarista. Pubblica su media nazionali e internazionali (Internazionale, La Stampa, Le Monde diplomatique, Al Jazeera, El Pais semanal). Il suo libro “Tropico Mediterraneo”, appena pubblicato da Laterza, è un racconto dal vivo degli effetti della crisi climatica sul nostro mare.
Memini climatici
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