La grande ingiustizia climatica che scarica i costi della crisi su chi non l'ha provocata
di Andrea Codega
Tre anni fa, durante la COP26 ospitata a Glasgow, il ministro per la Giustizia, le Comunicazioni e gli Affari Esteri di Tuvalu Simon Kofe decide di videoregistrare il proprio intervento in mare: vestito in maniera inappuntabile, in giacca e cravatta, ma immerso dalle ginocchia in giù nelle acque che circondano lo Stato insulare polinesiano.
Da diversi anni, il villaggio costiero Sitio Pariahan, situato nell’arcipelago delle Filippine e a nord della capitale Manila, affonda nel mare di circa 4 centimetri ogni anno. La causa principale è la subsidenza del suolo dovuta all'uso eccessivo delle acque sotterranee, ma a questo problema si sovrappone l’innalzamento del livello dell’oceano che a Tuvalu, come riporta la NASA, è oggi 1.5 volte più veloce della media globale. Le proiezioni indicano che nei prossimi 30 anni il livello dell'oceano che circonda l’atollo di Funafuti, la capitale di Tuvalu, potrebbe salire di quasi altri 30 centimetri, più di quanto ha fatto negli ultimi 30 anni. Le proiezioni guardano al futuro, ma intanto dovremmo occuparci del presente.
Nella mia testa sono queste le due immagini più utili per spiegare e raccontare l’imbuto rovesciato che rappresenta gli effetti del cambiamento climatico odierno: i Paesi che ne soffrono maggiormente gli impatti non sono in alcun modo quelli che contribuiscono alla formazione del fenomeno.
La sommità dell’imbuto è stretta, rappresentata dai pochi Paesi che contribuiscono a produrre la maggior parte dell’inquinamento e del riscaldamento della temperatura media globale; la base è invece estremamente larga e ci rientrano tutti i Paesi del terzo mondo – in particolar modo quelli del Sud globale – che si affacciano sul mare. L’imbuto rovesciato racconta, in maniera emblematica, l’enorme sproporzionalità che caratterizza il mondo odierno, non solo se parliamo di clima e ambiente.
Come conferma anche il giornalista ambientale di Domani Ferdinando Cotugno nel suo podcast Areale, i Paesi più sviluppati hanno ormai “occupato” il 92 per cento dell’atmosfera attraverso il proprio sviluppo. Tra questi, Cina, Stati Uniti e India sono i tre Paesi più inquinanti al mondo: da soli pesano per oltre il 50 per cento delle emissioni annuali di CO₂ globali; la Cina, da sola, apporta circa il 34 per cento dei milioni di tonnellate di CO₂ prodotte.
Questa sproporzione è visibile, ogni anno, anche attraverso l’andamento delle COP, le Conferenze delle Parti sui cambiamenti climatici presiedute dall’ONU: da anni, almeno dalla COP26 di Glasgow in poi, osserviamo le medesime reazioni e analisi non appena si scioglie la seduta. Lo spirito di comunanza e condivisione che aveva guidato la formulazione degli Accordi di Parigi del 2015 – il trattato che regola la riduzione globale delle emissioni di gas serra e stipulato da 195 Paesi firmatari – sembra perdersi a ogni Conferenza che passa.
Mentre i grandi della Terra guardano ai propri interessi e giocano a cambiare le carte in tavola – gli USA sotto la prima presidenza Trump si erano ritirati dal trattato nel 2020, salvo poi rientrarci nel 2021 con Biden –, chi esce costantemente penalizzato è il cosiddetto Terzo Mondo: l’agglomerato di Paesi meno sviluppati dove gli effetti dei cambiamenti climatici sono più tangibili.
Le ultime Conferenze sul Clima sono state progressivamente sempre più stantie e deludenti, distanti dagli obiettivi globali prefissati a Parigi – il contenimento dell’incremento della temperatura media globale a 1.5°C oltre i livelli preindustriali – e dal fornire una voce concreta a chi, già oggi, subisce i danni più feroci del riscaldamento climatico, a chi manifesta e si batte per una giustizia climatica.
La COP27 si è tenuta a Sharm El Sheikh, in Egitto, dove il dissenso degli attivisti sarebbe stato impraticabile. La COP28 ospitata a Dubai, nella culla di combustibili fossili che contribuiscono in maniera decisiva al riscaldamento del pianeta, è proseguita sul medesimo solco e così è stato anche con la COP29 di Baku, in Azerbaigian. Lì, poche settimane fa, l’attivismo climatico è stato assente. Le Conferenze annuali sembrano essere lo specchio di un dibattito sul clima che si sta attorcigliando sempre più su sé stesso, distanziandosi dall’obiettivo finale. Se nemmeno la terribile alluvione di Valencia, in uno dei Paesi più avanzati del mondo, riesce a fornire un deciso e comune cambio di passo nella lotta al riscaldamento climatico, che voce in capitolo possono avere i Paesi che già da tempo osservano i suoi effetti più violenti?
Tuvalu, stato insulare del Pacifico di soli 26 km² citato all’inizio della puntata, è uno dei tanti Paesi attorniati dal mare e dove gli effetti del cambiamento climatico saranno più catastrofici: entro il 2050 si stima che la metà delle terre occupate dalla capitale Funafuti saranno sommerse dall’acqua. Sempre nella stessa parte di mondo, le Isole Marshall hanno appena progettato una maglia da calcio progettata per scomparire: si chiama “No-Home 2030” ed è decorata con il numero 1.5, che rappresenta il limite dell’aumento della temperatura media globale e il rischio di scomparsa di questo arcipelago.
L’innalzamento del livello dei mari, insieme agli eventi meteorologici sempre più frequenti e violenti, sono il principale termometro – appunto… – di come il clima stia mutando: oltre alle isole del Pacifico come Tuvalu e le Isole Marshall, a farne le spese sarà anche l’intera area caraibica. Nelle Isole Bahamas, per esempio, si stima che entro il 2050 il livello del mare si potrà alzare di 32 centimetri se il riscaldamento climatico dovesse proseguire come da previsioni.
Il peso di Tuvalu, Isole Marshall e Bahamas sul totale delle emissioni globali prodotte è più che risibile: non si avvicina neanche lontanamente all’1 per cento delle emissioni di CO₂. Il medesimo discorso vale, ancor di più, per l’Africa: è il continente più arretrato al mondo, quello che osserverà la crescita demografica più significativa del secolo in corso e in cui i primi due Paesi per tonnellate di CO₂ prodotte sono Egitto e Sudafrica. Sono due tra i Paesi più avanzati del continente e apportano meno del 2 per cento delle tonnellate di emissioni di CO₂ globali.
La disparità climatica si contraddistingue per un vero e proprio imbuto rovesciato: il 19 Novembre 2000 da questa rappresentazione è nato il concetto di “Giustizia Climatica”, durante il primo vertice denominato First Climate Justice Summit e tenutosi in concomitanza con la COP6 ospitata a L’Aja.
La giustizia climatica sembra un concetto sempre più distante dalla modalità con cui si parla del cambiamento climatico e dall’atteggiamento con cui ogni anno quasi tutti i Paesi mondiali si ritrovano nella Conferenza delle Parti. Da Baku, ad esempio, i Paesi africani sono usciti estremamente insoddisfatti per l’accordo finale: il solo impegno delle nazioni più ricche – quelle che impattano maggiormente sull’inquinamento di gas serra – a destinare almeno 300 miliardi di dollari all’anno ai Paesi in via di sviluppo è distante dalle reali e complesse necessità della crisi climatica.
Emerge, dall’ultima COP29, l’interesse individualista con cui ogni Paese affronta la lotta al cambiamento climatico, con la stessa, apparente indifferenza che – purtroppo – finisce per riversarsi sui singoli cittadini, granelli di un ingranaggio globale attualmente poco efficace e, ancora, drasticamente squilibrato.
Andrea Codega ha 28 anni e scrive di cultura, geopolitica e ambiente. Da bambino sapeva tutte le capitali del mondo, dal 2022 cura Mappe, una newsletter che parla di storie, culture e persone. Un Paese alla volta.
Strumenti che puoi usare anche tu
World Weather Attribution (WWA) è un progetto che risponde a una domanda chiave: quanto è colpa del cambiamento climatico quando si verifica un evento meteorologico estremo? Per anni, la scienza del clima ha dato una risposta generica: con il riscaldamento globale, eventi come ondate di calore, tempeste e alluvioni diventeranno sempre più frequenti e intensi. Allo stesso tempo, spesso personalità politiche e anche nel mondo del giornalismo derubricano questi fenomeni con un “ma è sempre successo”.
Oggi, grazie ai progressi nella scienza dell’attribuzione, WWA riesce a quantificare con precisione quanto il cambiamento climatico abbia influito sulla probabilità e sull’intensità di un evento specifico, e lo fa in tempi rapidissimi, spesso entro pochi giorni. Fondato nel 2014, WWA lavora con scienziate e scienziati di tutto il mondo per analizzare in tempo reale gli eventi estremi, utilizzando dati meteorologici e modelli computerizzati. Ma non si limita a questo: studia anche come fattori preesistenti – infrastrutture inadeguate, sistemi di allerta insufficienti, vulnerabilità sociali – abbiano aggravato gli effetti dell’evento, fornendo così strumenti concreti per migliorare la resilienza delle comunità.
I risultati vengono pubblicati il prima possibile per permettere a giornalisti, policy maker e cittadini di avere dati affidabili con cui affrontare il dibattito sul clima. Un esempio: nel luglio 2021, appena 11 giorni dopo l’ondata di calore record nel Pacifico nord-occidentale, uno studio WWA ha dimostrato che il cambiamento climatico aveva reso quell’evento almeno 150 volte più probabile e 2°C più intenso.
Memini climatici

Innanzitutto complimenti per l'articolo e tutta la newsletter! Per curiosità, esiste un approfondimento sulle azioni cui saranno destinati i 300 miliardi previsti dall'ultima COP?