D’improvviso potremmo essere travolti da una piena senza che mai l’idea che potesse accadere ci avesse sfiorato. «Quel torrente» è il tipo di frase che in questi casi si sente più spesso dire «non aveva mai dato problemi. Nessuno avrebbe mai pensato che potesse succedere». E invece, qui sta il grande aggiornamento globale sull’estremizzazione dei fenomeni atmosferici a causa del cambiamento climatico, accade sempre più spesso là dov’era imprevisto e inaspettato. Dunque eccole, in un futuro che potrebbe appartenerci, le nostre case spazzate vie, le nostre industrie rase al suolo, l’idea che la nostra vita da un giorno all’altro potrebbe cambiare costringendoci a ripartire in un altro luogo e in un altro modo.
La storia di Silvia, la storia di molti
«Ci hanno evacuato la prima volta l’anno scorso, siamo scappati con uno zaino, due mutande, una foto del matrimonio. Siamo stati ospiti per tre mesi a casa di un amico, nella stanza un tempo destinata alla badante dei genitori. Ci sono stati prestati l’auto, i deumidificatori, tutto. Li ho attivati per un anno. Ma avevo perso tutto»: a raccontarmelo, a ottobre 2024, è stata Silvia Ortelli di Faenza. Era ormai alluvionata per la terza volta. Dopo gli eventi del maggio 2023, con lo straripamento del fiume che fino ad allora non aveva mai minacciato né lei, né la sua famiglia, è riuscita a rientrare in casa sua solo a settembre.
Silvia è stata una migrante climatica. Ha dormito per mesi su un letto non suo. Poi su materassini gonfiabili, senza porte né mobili. In meno di un anno ha lasciato e ri-aggiustato casa almeno due volte. «A questo giro, arrivata alla terza alluvione» spiegava a settembre, «ho riperso anche la mia attività per la quale avevo già una volta ricomprato tutto, inclusa la porta».
Il suo laboratorio di ceramica quando le parlo ha i segni del fango e della muffa e, appunto, non ha più una porta. Non ci sono neanche più i soldi, spesi tutti nelle precedenti emergenze. «Alcune mie amiche hanno messo all’asta le loro opere per darmi una mano a ripartire. Ormai però non ne possiamo più. Siamo stanchi, non ci sentiamo sicuri, lavoriamo ma non riusciamo a ricominciare. Ogni sera andiamo a dormire non sapendo se dovremo andarcene di nuovo. Ogni variazione del clima ci spaventa. Non è una vita felice». Vendere casa è una chimera. «Siamo tutti proprietari, ti offrono 30-40 mila euro per case che ne valgono 200 mila almeno». Davanti casa sua, un appartamento con piano terra, garage e cantine è stato venduto a 70 mila euro dopo l’ennesima alluvione. I suoi abitanti hanno deciso di cambiare città.
Ecoansia e ecottimismo: in mezzo, la realtà
Nel percorso per scrivere “Migrare in casa”, ma anche nel mio percorso di giornalista che ha scelto di occuparsi di temi ambientali, ho incontrato scienziati, ricercatori, attivisti, esperti. Tutti, come provo a raccontare spesso, hanno il pregio di essere razionali e ottimisti sulle prospettive per il futuro: adattarsi, provare a raddrizzare la barra, affrettarsi sulla prevenzione. In questo modo potremmo infatti ancora evitare il peggio. Nessuno vuol essere essere un uccello del malaugurio, nessuno vuole alimentare ecoansia. Eppure, nessuno rifiuta di contemplare l’idea che esista anche una prospettiva con cui è urgente iniziare a fare i conti: l’accelerazione nella lotta al cambiamento climatico – come l’ultima Cop 29 di Baku ha dimostrato – potrebbe non arrivare o non bastare. Il pianeta avrà nuove regole, i suoi abitanti abiteranno nuovi ecosistemi, l’Italia sarà in parte sommersa e dovrà adattarsi. Diventeremo tutti migranti climatici, in un modo o nell’altro, a tempo indeterminato. Anzi, abbiamo già iniziato.
Noi, migranti in casa nostra
Il punto di partenza per spiegare cosa questo significhi sta nei numeri. Online è disponibile uno strumento meraviglioso che si chiama Internal displacement monitoring centre (Idmc), Centro di monitoraggio degli spostamenti interni ed è la principale fonte mondiale di dati e analisi sul movimento interno ai confini degli abitanti dei diversi Paesi. Il progetto nasce nel 1998 come parte del Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc) e mira a fornire informazioni e competenze sugli sfollamenti interni «con l’obiettivo» si legge sulla piattaforma, «di ispirare le decisioni politiche e operative che possono ridurre il rischio di futuri sfollamenti e migliorare la vita degli sfollati interni in tutto il mondo». Per nostra fortuna, quando pensiamo agli sfollati climatici lo facciamo in associazione ai Paesi in via di sviluppo, dove oramai la migrazione è un fenomeno così ricorrente da essere vissuto come realtà quotidiana. Sempre più popolazioni sono costrette a emigrare e a spostarsi a causa delle calamità naturali che derivano prevalentemente dalla siccità e dalla desertificazione di intere aree del pianeta: senz’acqua, e quindi senza cibo, sopravvivere è difficile. Impossibile, se si sommano i disastri idrogeologici.
Queste popolazioni sono state battezzate “migranti” anche perché chi si sposta per motivi ambientali – l’anno scorso sono stati più di venti milioni – non può essere considerato un rifugiato climatico. Lo spiega l’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite: il “rifugiato climatico” non è riconducibile alla definizione della Convenzione di Ginevra sui rifugiati (1951), che invece definisce un rifugiato come qualcuno che ha attraversato una frontiera internazionale «a causa del fondato timore d’essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per un’opinione politica». La crisi climatica non è contemplata. Ci sono sporadiche iniziative umanitarie e anche politiche, ma non introducono obblighi di protezione vincolanti per gli Stati.
I numeri che nessuno vede
Dunque, il parallelo con chi è costretto a lasciare la propria casa, spostandosi la maggior parte delle volte anche nei suoi stessi confini o nei Paesi confinanti, è quasi naturale. Secondo l’Idmc, dal 2008 al 2023 gli spostamenti interni in Italia sono stati 147mila, gran parte dei quali dovuti a eventi sismici. Ma se si selezionano sui grafici i filtri “Alluvione”, “Movimenti di massa secca e bagnata”, “Incendio e tempesta”, il numero degli sfollati interni, temporanei e non, arriva a 28.400. Con il 2023, la quota raddoppia, arrivando a 71 mila. Il dato ha comunque dei limiti: viene infatti raccolto parzialmente dalle notizie sui media e in parte dai numeri ufficiali della Protezione civile (a cui ho indirizzato una mail per chiedere se disponessero di un monitoraggio degli sfollati italiani a causa del clima, senza però ricevere alcuna risposta).
Tuttavia, esiste un’antologia completa di fatti e spostamenti dovuti ad alluvioni e incendi recenti. Tra il 21 e il 22 agosto del 2023, per esempio, 700 persone sono state evacuate da Rio verso le scuole di Rio nell’Isola d’Elba per un incendio. Sempre in Toscana e nello stesso periodo, 1.200 persone sono state evacuate preventivamente a Montale, Montemurlo e Prato per le inondazioni. A fine ottobre, 250 persone sono state evacuate a Bagolino (Brescia) in previsione di una potenziale esondazione del fiume Caffaro legata al maltempo. Ad agosto, più di 120 persone sono state sfollate a causa di una frana a Bardonecchia, in Piemonte. Più di 2 mila gli sfollati in Sicilia a fine luglio, 400 in Sardegna ad agosto. E si potrebbe continuare a lungo. In tutto il 2023, per le alluvioni in Emilia-Romagna sono stati fatti spostare per cautela 23 mila cittadini. Ancora a novembre del 2024, alla terza alluvione, gli sfollati in Emilia Romana erano più di mille.
Insomma, in più di un decennio, sembrano dire i dati dell’Idmc, il trend degli spostamenti in Italia (che sia stato per precauzione o come conseguenza) è – tra alti e bassi – in salita. E le conferme arrivano anche dai numeri ufficiali. Stando ai dati del Cnr-Irpi contenuti nel Rapporto periodico sul rischio posto alla popolazione italiana da frane e da inondazioni, tra il 1972 e il 2021 gli evacuati e i senzatetto per frana e inondazione sono stati quasi 306 mila. A inizio gennaio 2024 sono stati diffusi anche i numeri dell’intero 2023: gli evacuati e i senzatetto sono stati 41.687, di cui 1.694 per frane e 39.993 per inondazioni. Tra il 2018 e il 2022, quindi in quattro anni, erano stati la metà.
Non c’è davvero più tempo.
Virginia della Sala è una giornalista professionista. Scrive di ambiente, digitale e cronaca per il Fatto Quotidiano. Ha collaborato con Repubblica.it e con l'Huffington Post. Ha vinto nel 2015 il premio giornalistico Miriam Mafai e nel 2019 il premio di scrittura Indro Montanelli nella sezione “Giovani”.
Il tuo bellissimo articolo mi terrorizza