Siamo soliti pensare alla disinformazione sul clima come a un problema di sfiducia nella scienza, o di una sua incomprensione. Scorri la tua home di Facebook e ti imbatti in un articolo che parla dell’ennesimo record di temperature registrato dall’osservatorio Copernicus per l’anno 2024. Sotto il post, una sfilza di commenti: c’è chi nega apertamente l’innalzamento delle temperature globali, chi lo minimizza dicendo che “il clima è sempre cambiato” e chi sostiene che Copernicus sia l’ennesimo tentativo dell’Unione europea di imporre la transizione ecologica e le “follie green” (sic!).
Forse la prima tentazione è di pensare che questi utenti non conoscano i risultati della scienza climatica, che siano male informati o che semplicemente si rifiutino di accettare la realtà. Il motivo del loro scetticismo, si dice, va ricercato nella loro scarsa alfabetizzazione scientifica; qualcuno direbbe, in termini meno diplomatici, nella loro “ignoranza”.
Tuttavia, questa maniera di formulare il problema dello scetticismo climatico, e della disinformazione che vi gravita attorno, è potenzialmente fuorviante, e rischia di confondere le acque. Ci sono diversi motivi per pensarlo. Il primo è che diversi studi sulle variabili demografiche ci dicono che, di solito, il livello di istruzione di un individuo è solo debolmente correlato alla credenza nel cambiamento climatico. Lo stesso vale per sesso, etnia ed età; sebbene le analisi che hanno come campione la popolazione statunitense abbiano trovato nel “maschio bianco conservatore” un pattern demografico ricorrente fra coloro che negano la crisi climatica. E tuttavia, se si prendono in considerazione anche gli altri Paesi, l’unica variabile demografica diagnostica a rimanere costante è l’ultima di quella triade: il conservatorismo. L’esatto opposto accade con i progressisti, che invece tendono a credere molto di più ai risultati della scienza climatica.

E arriviamo così al secondo punto. Interpretare lo scetticismo climatico come un problema di sfiducia nei risultati della scienza significa scambiare la causa con l’effetto: in molti casi, infatti, questa diffidenza non rappresenta la causa primaria dello scetticismo climatico, bensì la sua conseguenza. Il vero motore di questa resistenza risiede altrove: nelle ideologie, nei valori culturali e nelle visioni economiche che determinano il modo in cui le persone interpretano la realtà sociale. Per capirlo può tornarci utile un esperimento del 2014 di due psicologi sociali, Troy Campbell (Università dell’Oregon) e Aaron Kay (Università Duke). In questa ricerca, Campbell e Kay si sono chiesti se la desiderabilità di una soluzione a un problema noto – come la criminalità, l’inquinamento atmosferico o lo stesso cambiamento climatico – influisse sulla credenza nell’esistenza del problema associato. I due ricercatori hanno battezzato questa ipotesi come solution aversion (avversione alla soluzione): la soluzione a un problema a volte può essere più indigesta del problema stesso, con la conseguenza che si preferisce negare l’esistenza del secondo..
Quando si tratta di cambiamento climatico, i due ricercatori si sono chiesti perché in USA un numero maggiore di Repubblicani rispetto ai Democratici tenda a negarne o minimizzarne l’esistenza, nonostante le solide evidenze scientifiche. La loro analisi suggerisce che la radice del problema non sia tanto la scienza in sé, quanto l’opposizione dei conservatori alla soluzione più frequentemente proposta: un rafforzamento della regolamentazione governativa. Questa resistenza, per i Repubblicani, sembra pesare più di eventuali differenze nella percezione della gravità della crisi climatica.
Durante l’esperimento, ai partecipanti, sia Repubblicani che Democratici, è stata presentata una previsione scientifica secondo cui le temperature globali aumenteranno di 3,2 gradi nel XXI secolo. Subito dopo, è stata loro proposta una possibile soluzione al problema. Quando questa consisteva in una tassa sulle emissioni di carbonio o in altre forme di regolamentazione statale, solo il 22 per cento dei Repubblicani ha dichiarato di credere che le temperature sarebbero aumentate almeno quanto indicato dalla previsione. Tuttavia, quando la soluzione era presentata in termini di politiche di libero mercato, come il sostegno allo sviluppo di tecnologie sostenibili e orientate alla tutela dell’ambiente, la percentuale di Repubblicani che accettava il dato scientifico saliva al 55 per cento. Per i Democratici, invece, in entrambi i casi non è stata rilevata nessuna variazione significativa.
Questo fenomeno, ovviamente, vale anche all’inverso e influenza allo stesso modo l’elettorato più progressista. Anche questi individui mostrano una tendenza simile quando si trovano di fronte a soluzioni che percepiscono come politicamente indesiderabili. Testando il problema della criminalità, Campbell e Kay hanno visto come i Democratici favorevoli a un maggiore controllo delle armi tendevano a ridimensionare la frequenza delle effrazioni violente quando la soluzione proposta prevedeva un allentamento delle restrizioni sul possesso di armi, mentre la percezione del problema risultava più marcata quando venivano suggerite normative più severe.
Ma per quel che riguarda il cambiamento climatico è ormai noto da tempo che sono i conservatori, e in generale i partiti più a destra nello spettro politico, a manifestare maggiore resistenza. Il punto, però, è che la resistenza non è dovuta al rapporto che questi gruppi intrattengono con la climatologia, ma a ideologie con valori che apparentemente non hanno nulla a che fare con la scienza o con il clima. Ad esempio, secondo questa prospettiva, le persone che aderiscono a valori relativamente individualisti e gerarchici tendono a vedere l’industria e il mercato come pilastri della società, e quindi sono meno inclini ad accettare il cambiamento climatico come un problema serio, perché ciò implicherebbe restrizioni normative. Al contrario, chi ha una visione egualitaria e comunitaria tende invece a essere più scettico nei confronti delle grandi aziende e delle élite economiche, e dunque percepisce il cambiamento climatico come un problema reale che richiede regolamentazioni.

Si tratta ovviamente di tendenze, e non di regole assolute: le eccezioni non mancano. E tuttavia si tratta di tendenze ben supportate dai dati. Come si vede dal grafico, ci sono poi altri fattori correlati negativamente con la credenza nel cambiamento climatico. Una di queste viene sintetizzata dagli studi come free-market ideology, cioè un insieme di credenze economiche e politiche che sostiene che le forze di mercato debbano operare in un contesto di minimo intervento da parte dello Stato. Secondo questa ideologia, la regolazione governativa è vista come un ostacolo alla crescita economica, all’innovazione e alla libertà individuale. Non stupisce quindi che i suoi sostenitori siano spesso anche scettici nei confronti della scienza climatica. La risposta sta di nuovo nella solution aversion: affrontare il cambiamento climatico richiede misure – come regolamentazioni più severe sulle emissioni, interventi governativi per incentivare le energie rinnovabili o sanzioni per le industrie inquinanti – che cozzano con i valori fondamentali della free-market ideology.
Ma quindi avere fiducia nella scienza conta poco? Non esattamente. Se si guarda il lato sinistro del secondo grafico, si noterà che la variabile “fiducia negli scienziati” è correlata positivamente alla credenza nel cambiamento climatico. Non c’è bisogno di troppe spiegazioni: maggiore è la fiducia nella comunità scientifica, più è probabile che un individuo accetti i risultati della scienza climatica. Tuttavia, il fatto che la fiducia negli scienziati sia correlata positivamente con la credenza nel cambiamento climatico non significa automaticamente che chi è scettico sul tema abbia poca fiducia nella scienza in generale. La relazione tra queste variabili non è perfettamente simmetrica. Esistono persone che, pur fidandosi degli scienziati in altri domini, minimizzano o negano il cambiamento climatico per ragioni lontane, così come ci sono individui con scarsa fiducia nella scienza che tuttavia accettano la realtà della crisi climatica.
Come testimonia il fenomeno della solution aversion, lo scetticismo climatico non è dovuto unicamente a un atteggiamento di diffidenza nei confronti del metodo scientifico, ma spesso è il risultato di una resistenza alle implicazioni politiche ed economiche della mitigazione della crisi climatica. Se le soluzioni proposte per rallentare il cambiamento climatico sono percepite come una minaccia ai propri valori o interessi, diventa più semplice rifiutare l’evidenza scientifica piuttosto che accettare misure indesiderate.
Perciò, mentre la fiducia negli scienziati gioca un ruolo nel ridurre lo scetticismo climatico, di solito non è l’unico fattore in gioco. Comprendere che le resistenze alla scienza del clima derivano spesso da convinzioni politiche ed economiche più profonde aiuta a spiegare perché, in alcuni contesti, anche le prove più schiaccianti faticano a scalfire certe posizioni.
Maurizio Mascitti è dottorando in filosofia all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Nel suo progetto di ricerca si occupa di fake news, e in particolare di quelle sul cambiamento climatico. Coltiva la passione per la scrittura giornalistica collaborando con testate e blog online, tra cui il Corriere della Sera e Valigia Blu.
Memini climatici

Grazie per l'articolo.
Interessante: "la soluzione a un problema a volte può essere più indigesta del problema stesso, con la conseguenza che si preferisce negare l’esistenza del secondo".
Anche non volendo negare il problema, le soluzioni proposte non sono indigeste, ma sono oggettivamente stupide e quindi inquietanti. Basterebbe la favoletta delle energie rinnovabili che magicamente sostituiscono i combustibili fossili a far venire i brividi.
Grazie, veramente illuminante, i nostri bisogni di libertà, sicurezza, di salute, di sussistenza , di cura dei nostri figli, etc etc sono importanti più di quello che pensiamo e possono portarci a fare distinguo non motivati scientificamente. È importante per me che credo alla crisi climatica che si impari a comunicare la transizione ecologica, culturale, economica, energetica etc etc in modo da rassicurare che i bisogni di tutti saranno tenuti di conto e di stabilire strategie comuni che soddisfino i bisogni anche di chi subirà maggiormente la necessaria trasformazione per il bene di tutti! So che non sarà facile perché c'è chi vive l'emergenza delle conseguenze della crisi climarica che non può rimandare ma è anche vero che il tempo per trovare strategie comuni alla fine farà risparmiare tempo e la transizione procederà con meno ostacoli ideologici.