Il 14 marzo scorso il ghiaccio marino dell’Oceano Artico ha raggiunto la sua massima estensione annuale, circa 15 milioni di chilometri quadrati. È la quattordicesima più bassa da quando, alla fine degli anni ‘70, sono iniziate le rilevazioni satellitari. Da allora l’estensione massima si è ridotta di 1.68 milioni di chilometri quadrati, una superficie cinque volte quella dell’Italia. Ad oggi il massimo più basso è stato toccato nel 2017. «Anche se l’estensione massima di quest’anno non è stata tra le più basse che abbiamo registrato, la sua diminuzione a lungo termine continua», ha commentato Walter Meier, scienziato del National Snow and Ice Data Center (NSIDC), un centro statunitense specializzato in ricerca polare. Il valore di quest’anno è infatti inferiore a quello medio del trentennio 1981-2010, che il NSIDC impiega come periodo di riferimento.
Negli ultimi 45 anni il declino dell’estensione massima è proceduto a un tasso del 2.4 per cento per decennio. Molto più pronunciato è quello dell’estensione minima, che si raggiunge a settembre, alla fine della stagione estiva: più del 12 percento per decennio. Il valore registrato nel 2023 è stato il sesto più basso e il record negativo, ad oggi, risale al 2012. Come accade spesso, quando si parla di cambiamento climatico, sui social media c’è chi interpreta in modo scorretto dati e grafici, con l’obiettivo di dimostrare che nell’Artico non starebbe avvenendo nulla di rilevante o preoccupante.
Per evitare di farsi ingannare dalla disinformazione, è necessario approfondire le evidenze e capire cosa ci dicono davvero.
La fusione dei ghiacci del pianeta (come il ghiaccio marino, le calotte e i ghiacciai di montagna) è l’effetto del riscaldamento globale che appare più ovvio e intuitivo: tirate fuori un cubetto di ghiaccio dal freezer e nel giro di breve tempo, a causa della temperatura più elevata a cui è esposto, tornerà allo stato liquido. Il ghiaccio marino è però un sistema molto più complesso di un cubetto di ghiaccio, ma anche di più di una lastra di ghiaccio che riveste la superficie di un lago.
Se ci si limita a osservare le curve che delineano il declino del ghiaccio artico, non si coglie tutto ciò che sta accadendo in questa regione del pianeta da alcuni decenni a questa parte. Il ghiaccio artico non si sta solo restringendo, sta anche cambiando natura. In passato nell’Oceano Artico si trovava soprattutto ghiaccio pluriennale, cioè più vecchio di un anno. La formazione di ghiaccio pluriennale è un processo favorito dalla conformazione del bacino artico, un oceano quasi chiuso dalle terre dei continenti nord-americano ed euroasiatico e dalla Groenlandia. A nord dell’Alaska e del Canada si sviluppa una circolazione oceanica, chiamata Beaufort Gyre, che si muove in senso orario alimentata da un sistema anticiclonico. Con un’efficace metafora, gli scienziati definiscono questa zona una nursery del ghiaccio giovane. Il ghiaccio che nasce nel Beaufort Gyre circola per diversi anni, attraversando indenne diversi cicli stagionali e aumentando di spessore a ogni inverno. Il ghiaccio stagionale, dello spessore di non più di un metro o un metro e mezzo, si accresce di anno in anno, fino ad accumulare diversi metri. O, almeno, era ciò che accadeva fino ad alcuni decenni fa.
Oggi, a causa delle stagioni estive sempre più calde, una quantità più piccola di ghiaccio del primo anno riesce a sopravvivere alla stagione estiva e a venire promosso a ghiaccio pluriennale nell’autunno. Mentre, con il tempo, il ghiaccio pluriennale viene sospinto dalle correnti fino a uscire dall’Oceano Artico attraverso lo stretto di Fram, tra la Groenlandia e le Isole Svalbard, nel Beaufort Gyre ne viene ricostituito sempre di meno. Se nel 1985, alla sua massima estensione invernale, il ghiaccio più vecchio di quattro anni costituiva il 33 per cento della banchisa, nel 2019 era precipitato all’1.2 per cento. Secondo uno studio pubblicato nel 2018, dal 1958 lo spessore medio al termine della stagione estiva, misurato in sei regioni dell’Oceano Artico, si è ridotto di due terzi. Il ghiaccio più vecchio è ormai quasi del tutto scomparso. Quello che vediamo oggi è già un Artico molto diverso da quello di non molto tempo fa: più piccolo, più sottile, più fragile.
In uno studio pubblicato nel 2023 sulla rivista scientifica Nature, ricercatori dell’Istituto polare norvegese hanno ricostruito come, attorno al 2007, sia avvenuta una brusca diminuzione dello spessore del ghiaccio. I dati, raccolti in trent’anni di osservazioni del ghiaccio che esce attraverso lo stretto di Fram, mostrano che in quel periodo si è manifestata una rapida transizione: da una copertura più spessa e deformata, il regime del ghiaccio è passato a una copertura più sottile e uniforme. In seguito a questa transizione la frazione di ghiaccio più spesso e deformato si è dimezzata e ad oggi non si è più ripresa. Questo fenomeno è stato preceduto da una riduzione, avvenuta in due fasi, del tempo di residenza del ghiaccio marino all’interno del bacino dell’Oceano Artico, iniziata nel 2005 e seguita nel 2007. Nel settembre di quell’anno l’estensione raggiunse un record negativo che lasciò di stucco gli stessi scienziati.
Questo studio è significativo perché mostra come cambiamenti graduali e cumulativi nei componenti del sistema climatico possano generare risposte non lineari. Nel caso dell’Artico, sono stati coinvolti diversi fattori, interconnessi tra di loro, come l’aumento delle temperature, che da anni si registra nella regione, e l’aumento del contenuto di calore dell’oceano. Questa serie di eventi ha innescato un meccanismo di retroazione, quello dell’albedo del ghiaccio, cioè il suo potere riflettente. Il meccanismo è semplice da comprendere: una bianca superficie ghiacciata ricoperta da neve riflette circa il 90 per cento della radiazione solare (tanto da rischiare di causare una temporanea cecità se la si osserva senza proteggere gli occhi); al contrario la superficie dell’oceano, molto più scura, assorbe la radiazione solare. L’albedo del ghiaccio e quello dell’acqua sono agli opposti estremi. Quando una superficie di ghiaccio si assottiglia, si riduce o si buca vengono esposte aree sempre più ampie di acqua, che assorbono calore, che fa fondere ancora più ghiaccio, avviando così quello che si definisce un feedback positivo.
Quello dell’albedo del ghiaccio è uno dei feedback più studiati dagli scienziati polari, per l’impatto che avere per il clima anche al di fuori dell’Artico. Questo feedback è uno dei meccanismi alla base di un altro fenomeno: la velocità con cui il riscaldamento globale sta correndo nell’Artico. Che è almeno doppia, forse perfino quadrupla, rispetto al resto del pianeta. Tanto che, da qui alla fine del secolo, la pioggia, invece della neve, potrebbe diventare la forma dominante di precipitazione nella regione, soprattutto durante l’estate e l’autunno. Le conseguenze, secondo gli scienziati, sarebbero «diffuse, durature e forse anche irreversibili».
Di fronte a ciò che da anni osservano nell’Artico, gli scienziati si chiedono quando dobbiamo aspettarci la prima estate senza ghiaccio marino, cioè con una sua estensione inferiore al milione di chilometri quadrati (che sembrano ancora tanti ma non lo sono, rispetto alle dimensioni dell’oggetto di cui stiamo parlando). La questione è complessa perché su scale temporali brevi, di dieci o quindici anni, nell’evoluzione del ghiaccio entrano in gioco fattori interni, legati alla variabilità naturale. Se si osservano i dati raccolti in 45 anni di rilevazioni satellitari, si nota come, nel contesto di una tendenza complessiva alla diminuzione, si possano individuare tre diversi periodi, di circa 15 anni. Il periodo centrale è quello che mostra il declino più ripido. Dal 2007, dopo quella improvvisa transizione a un ghiaccio più sottile, la tendenza appare più stabile, nonostante il record negativo del 2012. Ma così come per la temperatura globale, anche per il ghiaccio artico dobbiamo osservare la tendenza in un periodo più lungo, per capire cosa sta avvenendo. I dati mostrano che in ogni decennio degli ultimi 45 anni l’estensione è stata inferiore a quella del decennio precedente. Non si vedono segnali di ripresa. Il ghiaccio marino artico, oggi, si trova su una traiettoria che lo porterà a restringersi, fino a quasi scomparire, durante una stagione estiva dei prossimi decenni.
Gli scienziati non prevedono il futuro scrutando sfere di cristallo o viscere degli animali. Raccolgono dati, fanno osservazioni, elaborano modelli matematici e proiezioni. Il destino del ghiaccio marino artico non è già scritto, ma dipenderà dal fattore che, nel lungo termine, sta esercitando la maggiore influenza sul clima del pianeta: le emissioni antropiche di gas serra. Come dimostra uno studio pubblicato sulla rivista Science, c’è una relazione lineare tra le emissioni cumulative di CO2 e l’estensione del ghiaccio a settembre: altri mille miliardi di tonnellate di CO2 e il ghiaccio in estate si ridurrà ai minimi termini. Ad oggi, le attività umane ne mandano ogni anno in atmosfera 37 miliardi circa. Quando, quanto spesso, e per quanto a lungo nel corso dell’anno l’Oceano Artico rimarrà quasi libero da ghiaccio dipenderà perciò da quali scenari di emissione di gas serra si realizzeranno nel prossimo futuro. Dipenderà, in ultima analisi, da noi esseri umani. Un Artico senza ghiaccio in estate è una possibilità che potrebbe avverarsi entro la metà del secolo.
Anche se non irreversibile, questo evento sarebbe di per sé significativo nella storia dell’Artico delle ultime migliaia di anni. La Terra ha attraversato periodi geologici in cui grandi distese di ghiaccio erano pressoché assenti. Ma è un pianeta alieno per la nostra civiltà, che difficilmente potrebbe prosperare in condizioni climatiche così estreme, rispetto a quelle che abbiamo conosciuto nella nostra storia. Dobbiamo perciò chiederci quali conseguenze avrà la progressiva distruzione del ghiaccio artico, ben oltre i suoi confini. Il ghiaccio artico interagisce in modo complesso con sistemi di circolazione oceanica che influenzano il clima anche nelle zone temperate. Quando si dice che stiamo attraversando un territorio inesplorato, è perché non sappiamo prevedere con certezza in cosa potremmo imbatterci. Quel che è certo è che l’impatto del riscaldamento globale nell’Artico, comprese le aree di terraferma della regione, non riguarda solo gli orsi polari o le altre comunità animali e umane che vivono in queste aree del pianeta. Ed è altrettanto certo che una rapida riduzione delle emissioni di gas serra è l’azione più urgente che dobbiamo intraprendere, se vogliamo scongiurare gli scenari più rischiosi.
Antonio Scalari è un comunicatore della scienza. È redattore scientifico di Facta, collabora con il sito di informazione Valigia Blu ed è un membro fondatore di Climate Media Center Italia.